Essere italiana e sentirsi europea é per me una questione di status quo. Saranno gli anni accumulati all’estero, le esperienze che mi hanno fatto crescere, questo sentimento che é come un profumo cui, una volta indossato, non posso più fare a meno. Un sentimento naturale.
Quando sono nata l’Italia era membro dell’Unione Europea da ventisette anni e nel 1999, agli albori di Internet, ho potuto tenere in mano i primi euro. ʺCiao ciao lire – mi sono detta- (alcuni esemplari li abbiamo tenuti in famiglia per ricordo), un millennio si chiude e con la mia generazione ne parte uno nuovo.ʺ . Eh si, una vera e propria generazione del Millennio: improvvisamente dovevamo non accontentarci di sapere una sola lingua, bensi padroneggiarne bene due, meglio tre, sapersi muovere bene su internet e soprattutto darci una mossa, saper viaggiare e aprirci a più esperienze possibili. Ricordo ancora con tenerezza il primo viaggio fatto a diciassette anni su un volo low-cost verso Londra, la mia prima vera vacanza all’estero da sola, un brivido sulla schiena, una vera e propria onda che avremmo tenuto viva per tutto il primo decennio del 2000: viaggiare a un euro, a volte un centesimo, e finire anche solo per un weekend in una città europea sempre nuova. Che F-I-G-A-T-A.
Si perché nascere nella periferia veneta e però portarsi l’inquietudine dentro é una gran condanna. Cresci in un contesto sano, solido, di gente piena di iniziativa e di buona volontà ma senti che a te non basta, vuoi di più. Vuoi uscire dalla zona di confort, slegarti per un attimo dagli schematismi in cui sei cresciuta e ricominciare da zero, vedere se, come e quanto resisti, adottare un altro vocabolario.
Sentirti non solo italiana, sentirti più che italiana.
E quindi tra lo sconcerto e la preoccupazione di alcuni conoscenti parti e sai e non sai cosa ti aspetta forse perché – grazie a sudati sforzi universitari e a una buona dose di organizzazione – hai vissuto già un Erasmus abbastanza scomodo e sufficientemente avventuroso da farti capire che in certe situazioni, alla fine, te la puoi perfettamente cavare. E allora forza, zaino in spalla, euro (come sempre) contati al millesimo e passaporto alla mano per rompere più barriere possibili, soprattutto quelle della diffidenza e del pregiudizio.
Scegliere o meglio decidere di essere un’italiana all’estero é per me un lento processo di smaltimento interiore, un pò come una pianta che, sventolata per anni dal vento, ha perso tutti i suoi rami morti e adesso ne ha buttati di nuovi, per crescere di nuovo forte e rigogliosa verso il cielo.
Il termometro della mia italianità é rimasto congelato a lungo, soprattutto agli inizi quando il mio unico obiettivo era potermi integrare, e questo non é avvenuto su un tappeto rosso (fortunato chi invece l’ha avuto, e lo dico senza risentimento!), ma superando una serie di scogli che mi hanno fatto capire cosa di buono c’é nell´essere italiani e cosa di meglio c’é nel sentirsi europei.
In che misura ci si sente italiani? Nella propria personale ricerca verso le cose buone del nostro paese: la nostra cucina, povera ma appetibile a tutti, la nostra arte ed architettura, che fanno rimanere a bocca aperta centinaia di turisti, il nostro saper trasformare una cosa insignificante in una meraviglia, la nostra capacità di adattarci fino a Capo Nord (lo sapete che c’é un ristorante italiano perfino a Capo Nord?), di trovare soluzioni a tutti i problemi, di strappare un sorriso a chi da tempo non ce l’ha.
E poi e poi…sentirsi europei come un valore aggiunto: apprezzare la fortuna di poter realizzare i propri sogni in qualsiasi angolo di questo continente. Fare della storia propria e del proprio paese un argomento di scambio e non di monologo. Riconoscere l’organizzazione di un paese, non far un muro davanti agli aspetti che ʺnon ci piaccionoʺ e saper integrarvisi. Farsi portatori di un valore non necessariamente migliore ma aggiunto. Sostituire l’arroganza con la capacità di mettersi in discussione e di scusarsi, se necessario. Ragionare premettendo sempre un ʺnoiʺ al proprio ʺioʺ. Capire che prima di giudicare bisogna fare esperienza diretta.
Il mio collega di origini turche Nadir é qui a Monaco da circa trent’anni e, a parte il suo tedesco perfetto e il suo amore per il Leberkäse, rimane inequivocabilmente turco in abitudini e sentimenti. Un giorno, piena di curiosità, alzo la testa dal computer e gli chiedo ingenuamente:
„Nadir, ma tu dopo trent’anni qui, come ti senti? Piu´turco o piu´tedesco?“
„Ich fühle mich Mensch (mi sento una persona)“ mi risponde.