Quest’anno vorrei prendervi per mano, cari genitori, e accompagnarvi in un viaggio attraverso l’educazione emotiva nei bambini expat. Cercheremo di capire come funzionano, come si innescano, come si placano alcune precise emozioni.
Vorrei, infine, puntare il faro su alcuni momenti che, nella vita di bambini expat, possono amplificare tutto questo.
Mi presento, sono Marta Salvio, terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, in attesa del riconoscimento del titolo come Ergotherapeutin.
Oggi parleremo nello specifico della tristezza:
Cos’è la tristezza?
La tristezza è considerata una delle emozioni di base ed è una risposta naturale a situazioni che coinvolgono dolore psicologico, emotivo e/o fisico.
Le emozioni di base sono quelle da considerarsi “vitali”: esistono per farci sopravvivere, quindi per deduzione, converrai con me, è molto sciocco reprimerle o ignorarle.

Distratto, stanco, o forse un po’ triste? Osservando i nostri figli ci facciamo spesso queste domande. Foto da Pexels
Ritornando alla tristezza, questa emozione ci aiuta a determinare cosa conta per noi, cosa ci piace e non ci piace e ad elaborare esperienze difficili.
Ora ti dirò una frase che vorrei ti ricordassi fino alla fine di questo articolo:
è normale sentirsi tristi ed esprimere questa emozione
Le espressioni di questa (e in realtà di tutte le emozioni), ovviamente, cambiano da persona a persona e a seconda della fase di vita in cui ci si trova.
Ti faccio un esempio: c’è chi piange, c’è chi urla, c’è chi vuole rimanere da solo, chi ha un disperato bisogno di essere abbracciato, c’è chi dice “sono triste” e chi dice “sono solo un po’ stanco”.
Come funziona la tristezza?
Nella puntata di un meraviglioso podcast (che ti lascio qui sotto) la psicologa che descrive le emozioni di base spiega come funziona la tristezza con un’immagine che ti riporto di seguito.
Immagina un cucciolo di gattino che al mattino viene lasciato dalla mamma che va a cercare del cibo per lui ma la mamma non torna.
Cosa farà il gattino?
Miagolerà per richiamare la mamma, ma in questo modo attirerà l’attenzione dei predatori, rischiando quindi la vita. Poi comincerà a cercare la mamma muovendosi e consumando energie ma senza avere la certezza di un pasto sicuro, rischiando anche in questo caso la vita.
Cosa si innesca quindi?
La tristezza, che porta il gattino a rintanarsi e rimanere tranquillo e silenzioso nella sua casa. In questo modo non attirerà l’attenzione dei predatori e risparmierà energie fino al prossimo pasto. Mettendosi in salvo.
Quale funzione ha avuto questa emozione nel percorso di vita di questo cucciolo? Una funzione di sopravvivenza.
Ricordatelo, le emozioni di base ci servono per sopravvivere!
Sarebbe stupido inibirle perché questa azione ci arrecherebbe fondamentalmente solo danni.
La tristezza ci serve per elaborare eventi difficili da accettare o comprendere, ci serve per risparmiare energie, per metterci in salvo. La tristezza definisce parte dei nostri confini.
Come si innesca la tristezza?
Ad innescare un’emozione solitamente sono eventi esterni, nel caso della tristezza tra questi troviamo:
- eventi di vita dolorosi (salutare familiari e persone care per lunghi periodi, traslochi, ecc.)
- rifiuti/negazioni
- non essere ascoltati
- essere presi in giro
- non essere capiti
- …
Ti ho fatto qualche esempio che, da expat, è frequentemente parte della nostra vita.
Ma arriva fino in fondo per qualche dettaglio in più.
Come si placa la tristezza?
Ora ti dirò qualcosa che probabilmente non ti piacerà: non devi calmare i tuoi figli.
La cosa migliore che tu possa fare è lasciargli vivere, provare e superare quest’emozione.
È difficile? Assolutamente si

È utile? Assolutamente si
Perché? Perché se le lasci vivere e provare questa (o le altre) emozioni di fatto stai facendo un “lavoro” di alfabetizzazione emotiva e ad oggi sono molti gli studi dove si vedono i vantaggi di un adeguato supporto in questo ambito.
Ora immagino vorrai sapere cosa si debba fare per aiutarlo in questo passaggio di conoscenza di se stessi e della propria emozione.
Ecco un piccolo schema di cosa ti consiglio e ti sconsiglio di fare:
Ti consiglio di… | Ti sconsiglio di… |
Verbalizzare: “vedo che sei triste anche io mi sento così…” | Dire: “tranquillo non è niente, ora passa subito…” |
Restare a disposizione: “se hai bisogno di qualcosa sono qui, se vuoi un abbraccio o un bicchiere d’acqua fammelo sapere” | Dire: “non fare così, quando piangi/urli/ecc non mi/ci piaci” |
Rassicurare: “è difficile sentirsi tristi ma possiamo pensare alle cose belle che abbiamo fatto oggi/in questi giorni/ecc. Te ne viene in mente una?” | Dire : “non fare la femminuccia” |
Ricordale che le vuoi/volete bene sempre anche quando si fa fatica | Lasciarli da soli “per fargliela passare” |
La dura vita da expat…non è poi così dura!
Ricordo vividamente un paio di episodi di tristezza straziante nel periodo successivo al trasferimento.
Come raccontavo rispetto al mio trasferimento e rispetto a momenti particolari come puo’ essere il Natale, ci trasferimmo a fine novembre e ovviamente a dicembre tornammo per le vacanze natalizie in Italia.

Il viaggio peggiore della nostra vita fu proprio quello di ritorno a Monaco. Mio figlio, che aveva vissuto i suoi primi due anni e mezzo di vita circondato da nonni, zie e cuginetti, realizzò che il nostro trasloco era definitivo, che vivevamo molto lontani e che sarebbe passato molto tempo prima di rivedere le persone a lui care.
Cosa causò tutto ciò? Ovviamente un’immensa tristezza.
Come la espresse? Urlando (e non è un eufemismo) per la prima ora e mezza di viaggio “lasciatemi qui, io voglio i miei nonni, non voglio andare a Monaco, voglio stare a casa dei nonni”.
Fu dura: piansi con lui, gli dissi che capivo benissimo, che mi sentivo anche io così. Si addormentò urlandomi “vai via”.
Il secondo momento difficile fu quando dopo qualche mese ci venne a trovare mia sorella, altra figura per lui molto importante, che si era presa cura di lui molto spesso nei primi anni di vita.
Filò tutto liscio fino al giorno della sua partenza.
Evento che naturalmente portava con se la nostra cara amica tristezza.
Anche io e mia sorella eravamo tristi, ce lo dicemmo con abbracci e parole e qualche lacrima, ovviamente.
E poi arrivò il suo turno di esprimere la sua tristezza. Come?
Questa volta si parò davanti alla porta di casa dicendo e poi forse anche urlando “tu non puoi uscire, tu non puoi partire, devi restare qui”. La zia con gli occhi lucidi gli rispose che le sarebbe tanto piaciuto ma proprio non poteva rimanere. Io lo presi in braccio, gli dissi che anche io avrei voluto che la zia restasse ma era arrivato il momento di salutarla e che appena possibile ci saremmo rivisti.
Dopo questi primi due episodi mi dissi che se avessi dovuto, vivere, gestire ed affrontare questo doppio carico emotivo (eh si doppio, perché in mezzo c’era anche la mia di tristezza da gestire), tutte le volte che facevamo il viaggio Italia-Monaco e tutte le volte che dovevamo salutare un nostro caro che ci veniva a trovare, quasi sicuramente non ce l’avrei fatta.
Per fortuna, per lavoro di alfabetizzazione emotiva fatto, per naturale sviluppo e decorso dell’emozione e qualche piccola tattica (chiamala pure strategia di sopravvivenza) messa in atto da me e mio marito, questo non successe. Con il passare delle volte, con la crescita e lo sviluppo emotivo, con l’assestamento delle routine, volta dopo volta è stato sempre più semplice.
Ci sono delle differenze che vedo fra i miei figli ovviamente: la seconda che ha vissuto queste dinamiche fin da quando aveva un paio di mesi si pone in modo più rilassato ai saluti o agli arrivederci, il primo invece continua ad avere qualche difficoltà e capita spesso che non abbia voglia (o forza) di salutare o di farsi abbracciare da chi va via.
E va bene così.